sabato 9 ottobre 2010

UN VECCHIO DEBITO - GIUSEPPE GARIBALDI -

Un vecchio debito All’inizio degli anni ottanta venni invitato da alcuni amici a visitare una mostra filatelica, iconografica e documentale su Garibaldi, allestita alla Maddalena. Non avevo mai visitato l’Arcipelago e l’idea di recarmi anche a Caprera presso la casa dell’Eroe dei due mondi e sulla sua tomba, mi convinse ad accettare l’invito. Era un maggio fresco e limpido come gli anni della giovinezza. A Palau mi imbarcai su un piccolo traghetto che mi portò pigramente alla Maddalena, solcando lieve l’acqua inquieta di quella laguna ammaliante che si forma tra le isole e la costa. Dedicai il primo giorno alla visita dei luoghi garibaldini a Caprera: la casa, il piccolo museo, l’albero di Clelia, il ponticello, la tomba monumentale e le sue iscrizioni: tutto evocava il Generale e la sua vita avventurosa. Affioravano alla memoria le gesta, le battaglie, gli errori e i pentimenti del Condottiero: coraggio, miseria e grandezza, confusione ed ingenuità, ed involontariamente cercavo un nesso tra questo luogo selvaggio e remoto a lui tanto caro, e la sua vita idealistica, romantica e tempestosa. Tornarono alla mente i suoi versi: “Sulle tue cime di granito io sento di libertade l’aura, e non nel fondo corruttore delle reggie, o mia selvaggia solitaria Caprera” Le isole del vento L’arcipelago è uno dei posti più belli del Mediterraneo e affascina al primo sguardo. Le sue acque ipnotiche sembrano diamanti liquidi e trasparenti: bianchi, verdi e d’ogni celeste conosciuto, mentre più lontano l’onda s’increspa, indugia e si spande in un raro azzurro oltremare che lo sguardo possiede solo per un breve momento. Le colline e le coste granitiche cangiano colore durante il giorno: dal bianco al grigio al rosa, incastonate nel verde intenso della vegetazione mediterranea, ancora in buona parte selvatica, che diventa brillante e poi cupo col trascorrere delle ore, tosto che il sole declina segnando inesorabile il tempo che fugge lontano e si separa dalla nostra anima. E nessun tramonto compete con quell’occhio immobile della storia, rosso e ardente, che si staglia basso all’orizzonte, contro un cielo che non perde mai il suo azzurro brillante ed infinito, finché non si arrende l’ultima luce del giorno: poi è la notte silente. E nella tenebra muta, nel vortice solitario dei ricordi, il profumo delle essenze selvatiche diventa sempre più fresco e suadente al sonno dei giusti e tagliente per la coscienza che rimorde. Avanzava nella notte il Maestrale, tenue ed impalpabile come il velo nero che avvolge i destini, lieve ed inesorabile come l’ultimo respiro. D’improvviso riprese forza quel vento indomito che da sempre tormenta questi scogli e sembra deformare gli alberi con la sua persistenza, e li piega e li arde con la salsedine amara. L’Arcipelago sembrò il luogo ideale per la memoria eterna, il moto perpetuo della vita e la stasi dolorosa del rimpianto che tormenta le anime travagliate. I ricordi struggenti dei popoli umiliati e gli eroi dalle mani insanguinate, avanzavano immobili portati dall’onda come ombre dell’Ade e poi fuggivano nel nulla senza toccar la riva, rapiti dalle lame affilate del vento sibilante. Un soffio vivido e mortale, carico dei suoni delle battaglie e del cozzar delle baionette: un turbine che spande un brivido latente, l’orrore insensibile che attraversa la storia. Si udiva nell’aria fredda il dolore delle generazioni: un grido senza suono che diventava solo il tic tac di un orologio senza lancette. E il tempo così svaniva e si mutava in memoria. La stanza d’albergo, Il nido dell’aquila se ben ricordo, aveva un piccolo terrazzo panoramico tra il mare e il colle. Una roccia enorme di granito candido incombeva alle mie spalle e li da presso, un mare ormai nero spirava sussurrando agli scogli lusinghe incomprensibili. Fissai per un tempo breve ed interminabile l’ultima onda che si frangeva sempre uguale contro il suo destino, e mi sorpresi smarrito in un pensiero indecifrabile che svanì assorbito dalla realtà che mi ridestava. Volsi infine con fatica lo sguardo alle stelle che tremavano brillanti contro la luna sottile e indifferente: e così vagamente pensando all’eterna adolescenza dell’umanità, mi addormentai indugiando in quel momento del trapasso, in quella piccola morte che ogni sera ci introduce dal pensiero al sogno, deformando il primo e realizzando il secondo. E al non essere ci abbandoniamo felici di lasciare per un breve momento le fatiche della realtà, la follia della ragione e del vivere la trama fitta che mai ci abbandona. Il giorno irruppe dal nitore dell’Est. Svanirono i fantasmi nella luce nascente. Ci recammo a visitare la mostra. Interessante e varia con tanto materiale storico, iconografico e filatelico sul Generale e le sue imprese. Naturalmente tra i quadri dell’esposizione, non si parlava d’altro che della vita e delle imprese del Nizzardo e alcuni appassionati cultori mi mostrarono diversi documenti in copia: il primo era un lettera di Garibaldi all’Ufficio delle Imposte di Sassari con la quale il Generale dichiarava di essere impossidente e di non aver soldi per pagare le tasse. Mi pare datata 1867. Un altro documento invece era la copia dell’atto di concessione dell’intera Isola di Caprera a Garibaldi da parte del Regno d’Italia. Altri atti riguardavano varie richieste di Garibaldi di carattere materiale, come l’istanza di spostamento del ponte che gli impediva di borghesare con la sua barchetta a vela. Imaruhy Invero Giuseppe Maria Garibaldi, questo il suo nome completo, registrato a Nizza in francese Joseph Marie Garibaldi, aveva acquistato il primo nucleo di Caprera con la piccola eredità pervenutagli dalla prematura scomparsa del fratello minore Felice che in alcuni documenti commerciali firma “Garibaldy”. Curiosa circostanza vuole che il padre venga nominato in alcuni atti civili come “Garibaldo” mentre anche lo zio firmava “Garibaldy”. Ed in tema di nomi, quando il Generale aderì alla Giovine Italia, dopo il primo incontro con Mazzini, nell’ambito di quella Organizzazione prese lo pseudonimo di Giovanni Borel (in ricordo di Giuseppe Borel, patriota fucilato insieme ad Angelo Volonteri nel 1834). In Sud America lo chiamavano Don Jose oppure El Coronel: non era ancora l’Eroe dei due mondi e dalle tante anime. Avevo letto alcune biografie del Generale e i dubbi superavano le certezze. E mentre si discuteva dei tanti episodi controversi, seguivo in modo binario pensieri e parole, e tornava alla mente un episodio: Garibaldi piange quando apprende della fine del Regno di Francesco II a seguito della caduta di Gaeta nel 1861. E ancora le note di suo pugno nel 1860, dopo Teano, “Donato il regno al sopraggiunto re”: perché “donato”? I conti non quadravano e le fonti erano del tutto incoerenti. Troppi misteri. Assordanti le pochissime parole bisbigliate da Garibaldi sull’eccidio di Imaruhy durante la guerra di secessione dal Brasile della Repubblica del Rio Grande del Sud. Il Generale combatteva a fianco dei repubblicani secessionisti ed eseguì l’ordine di saccheggiare, di mettere a ferro e fuoco quella cittadina, rea di esser tornata dalla parte degli imperiali dell’infante Don Pedro II, quando questi ne avevano brevemente ripreso il controllo. Fu una strage di civili e gli uomini al comando di Garibaldi si distinsero per l’efferatezza dei delitti contro la popolazione inerme. L’eremita di Caprera affermerà in diverse versioni ed interviste per biografie, di aver frenato a colpi di sciabola i suoi lanzichenecchi nel tentativo di difendere “almeno la vita dei civili”, ma ammette nel contempo che questo freno fu tardivo. E leggendo oltre non appare veritiero che vi sia riuscito, dal momento che egli stesso confessa che è “Impossibile narrare minutamente tutte le sozzure e le nefandità … io non ebbi mai una giornata di tanta nausea per l’umanità”. Per sedare le belve ubriache che prima aveva scatenato ed ora non riusciva a tenere a freno ricorda: “Infine, con minacce, percosse ed uccisioni (sic), si pervenne ad imbarcare quelle fiere scatenate”. Dunque per ammissione dello stesso Garibaldi, per riportare la disciplina ordinò e consentì che venissero passati per le armi alcuni dei suoi uomini che egli stesso definisce “fiere”. Incomprensibili rimanevano le bizzarrie del Generale, come quella di chiedere a Giuseppe Mazzini le “Lettere di marca” per fare il corsaro ed aggredire i legni Sardi e di Stati “nemici” in Sud America, come se Mazzini (che non rispose) rappresentasse uno Stato sovrano. Quelle lettere gli verranno invece rilasciate dal Governo del Rio Grande del Sud ed a questa attività piratesca contro i legni brasiliani, si dedicherà per qualche tempo, con alterne fortune. L’uomo dai mille volti Eroe e corsaro quindi, e spietato all’occorrenza. Ma a Caprera Garibaldi era pastore ed agricoltore. Sull’Isola deserta si rifugiava nelle pause di quella vita confusa, convulsa ed avventurosa, dai troppi avvenimenti e dalle eccessive contraddizioni. E’ noto che gli uomini ricchi di vita spirituale ed ideale, amano la solitudine sopra ogni cosa. Non potendosi uniformare al mondo dei comuni mortali, si isolano mentalmente ed a volte fisicamente, per crearne uno personale: una realtà separata. Garibaldi affermava: “Se qualcuno venisse ad abitare nell’Isola mi troverei un altro rifugio”. A Jessy Wite Mario confessava: “Voglio morire in un luogo deserto”. Il Generale rifugge le folle e la mondanità, e spesso anche l’umanità; appare sfiduciato in merito alle qualità morali dell’uomo ed alle sue speranze di redenzione e di autogoverno, ma contemporaneamente combatte strenuamente per la “liberazione” degli oppressi e chiama attorno a se tutti gli uomini “di buona volontà”. Si proclama Legato Apostolico e odia la Chiesa di Roma. Chiede una lapide e dispone d’essere arso con essenze selvatiche. Repubblicano e monarchico per necessità, afferma infine più volte che il miglior Governo è senza dubbio la Dittatura. Distrugge il Regno delle Sicilie e piange per la sua fine. Un uomo in perenne lotta con se stesso. Questo forse è il nesso: Garibaldi è l’uomo delle contraddizioni e Caprera e l’icona più significativa di ogni contrasto tra ragione e sentimento, tra solitudine e universalità, tra spirito e materia, tra la natura ostile e la meraviglia del Creato. Ripresi a girovagare discutendo tra i quadri esposti ed il mio interesse per l’argomento era evidente come il mio giovanile entusiasmo. Verso la fine della mattina, che arrivò repentina, si avvicinò a me un vecchietto, ben oltre gli ottanta. La faccia solcata dall’aratro dei giorni e gli occhi cerulei che snudavano un animo mite. Mi disse: “Sono Giovanni Canepa: ho sentito quanto lei sia interessato alla vita del Generale”. Risposi: “Raccolgo materiali e documenti che lo riguardano. E’ un personaggio complesso, a volte indecifrabile, ed io sono attratto dagli enigmi”. Mi guardò negli occhi, sollevando con fatica lo sguardo ed il collo piegato dagli anni, e continuò: “Se ha tempo, le voglio raccontare una storia che riguarda Garibaldi”. “Certo che ho tempo!”, risposi spezzando la sua ultima vocale. Il racconto di Vannantò Iniziò il racconto: “La mia è una famiglia maddalenina da lungo tempo, anche se la nostra origine è genovese. I miei avi vennero qui forse all’inizio dell’Ottocento. Mio nonno materno si chiamava Giovanni Antonio ma tutti lo chiamavano Vannantò: era fabbro e maniscalco, ma come tutti, per arrotondare faceva piccoli lavori in campagna, qualche giornata da bracciante quando capitava. L’Isola era povera e poco abitata e bisognava arrangiarsi come si poteva. Un giorno, forse nel 1867, nonno lavorava a Caprera in un piccolo orto estivo non lontano dalla casa bianca di Garibaldi. Era mal vestito: a quei tempi un pantalone, una giacca o una camicia potevano rappresentare un lusso. Il Generale poco lontano accarezzava Brunetta la sua mucca preferita; vide nonno male in arnese, curvo sulla terra con in testa un cappellaccio di paglia pieno di buchi e gli fece cenno di seguirlo in casa. Nonno lo segui senza fiatare. Nell’Arcipelago tutti lo conoscevano, lo chiamavano il Generale e basta: lo lasciavano tranquillo, non lo infastidivano e lui era grato per questa loro riservatezza. Diversamente gli ospiti stranieri lo tormentavano. Arrivavano continuamente dalla Penisola e da tutta Europa. Specialmente dall’Inghilterra dove era considerato il primo tra gli eroi moderni e paragonato a quelli dell’antichità classica. Dicevo, nonno lo seguì in casa ed il Generale aprì una cassapanca di legno piena di vestiti. Tirò fuori la divisa da generale dell’esercito sardo-piemontese, quella che indossava in Sicilia e a Napoli, e gliela regalò berretto compreso. Nonno rimase di sale. Non sapeva cosa dire, e forse non comprendeva a fondo il significato di quel gesto. Fatto sta che il giorno dopo andò a zappare l’orto vestito da generale. Qualche mese dopo, mentre in alta uniforme era intento a falciare l’erba, si avvicinò a lui una delle tante signore inglesi che facevano visita a Garibaldi, arrivando con i grandi velieri che lenti ancoravano al molo della Maddalena. La signora rimase immobile ed incredula: non era spettacolo di tutti i giorni vedere un contadino vestito da generale e quindi gli chiese in un italiano improvvisato: “Buon uomo chi vi ha dato questa divisa militare?” Vannantò drizzò su la schiena dolente, si tolse il cappello, portò il dorso di una mano alle reni e prima di rispondere ci pensò su un momento. Poi le disse: “Signora è un regalo del Generale”. “E perché vi avrebbe fatto questo regalo?” “Non so, forse a lui viene troppo stretta” “Quanto volete per vendermi questa divisa?” “E perché dovrei venderla a Voi?” “Perché io vi darò quello che chiederete” “Ma io non chiedo nulla” La signora si spazientì e riprese: “Quanto guadagnate in una giornata di lavoro?” “Una Lira” “Bene, vi offro cento Lire per questa divisa”. La cifra era considerevole: un’offerta così non si poteva rifiutare. “Va bene, ve la vendo, ma datemi almeno il tempo di tornare a casa e cambiarmi, sa io sotto non ho …”. Così nonno vendette la divisa di Garibaldi alla gentildonna inglese e con i soldi riparò il tetto della casa e comprò 6 capre e un vitello. Qualche tempo dopo il Generale ripassò vicino l’orto dove lavorava Vannantò e si accorse che non indossava più la divisa ma i vecchi e logori panni in cui le toppe erano peggio dei buchi. Si fermò e gli chiese: “Perché non indossi più i vestiti che ti ho donato? “Generale una signora …”, e gli raccontò l’accaduto. Garibaldi ascoltò in silenzio il racconto ed alla fine gli disse: “Vedi … il popolo purtroppo viene sempre spogliato dai parassiti, in un modo o nell’altro con le buone o con le cattive, nobili e preti ottengono sempre ciò che vogliono”. Cercò di giustificarsi, ma il Generale gli fece cenno di star zitto che non vi era bisogno di parole e riprese: “Vieni a fine giornata a casa mia”, e andò via. Vannantò rimase perplesso, ma alle 18,00, finite le dieci ore di duro lavoro, andò a casa del Generale. Lo trovò in un piccolo locale adibito a deposito attrezzi. “Entra“ gli disse e gli mostrò subito una medaglia di bronzo che da un lato recava l’effigie di Vittorio Emanuele e dall’altra una scritta. Pendeva da un nastrino tricolore fissato all’appiccagnolo. “Sai leggere?” Gli chiese. “No Generale, lavoro da quando avevo sei anni e nessuno mi ha mai insegnato.” “Leggerò io per te, ascoltami attentamente:”ITALIA E CASA DI SAVOIA LIBERAZIONE DI SICILIA 1860”. Detto questo pose la medaglia su una piccola incudine e la colpì con forza più volte, con una vecchia martellina. Poi la riprese e spezzò l’appiccagnolo, quell’anellino in cui era infilato un nastrino tricolore. “Ora questa medaglia è tua e sono sicuro che non la venderai mai” Nonno non capiva: si sentiva umiliato e deriso, disse sommessamente: “Ma generale … perché?” “Questa medaglia che il Re mi ha mandato, non mi fa onore e non la merito perché non ho liberato la Sicilia e neanche i siciliani, e tanto meno quelli che come te si spezzano la schiena senza speranza e senza futuro. Non la voglio in casa, non voglio più vederla perché è il simbolo del mio fallimento. La terrai tu con questi segni che vi ho inciso per sempre, e quando sentirai che la speranza nel domani ti abbandona, la getterai in fondo al mare”. Il Generale si fermo un attimo e guardò lontano verso l’orizzonte, poi riprese: “Declina e cade il sole sconfitto … e sono troppi i ricordi e gli errori che mi tormentano in questo lungo inverno della mia vita. Ti racconterò una cosa che non ho mai detto a nessuno. In Brasile, a Imaruhy durante la guerra civile una giovane donna fuggiva per la strada trascinando per un braccio un bimbo troppo piccolo per correre. Fuggiva da noi che credevamo di portare la libertà e la fratellanza e intanto sparavamo sui civili e li passavamo a fil di spada. Urlava la sua paura senza fine quando il piombo le attraversò la gola ed il suo grido si trasformò in un fiotto di sangue che esplose dalla sua bocca. Due passi ancora e l’anima l’abbandonò. Ed io rivedo spesso nei miei incubi quella donna e la sua voce, il suo grido verso il cielo che diventa liquido e rosso e poi il suo piccolo con le mani sugli occhi, in ginocchio accanto al cadavere.” Il racconto finì così. Mi ritrovai immobile, Canepa mi guardò di nuovo senza dire nulla: prese dalla tasca un pezzo di stoffa che avvolgeva una medaglia che mi porse stretta tra l’indice ed il pollice. Esaminai la medaglia: era autentica, una di quelle che vennero distribuite dopo la “Campagna di Sicilia” ai combattenti, coniate in forza del Decreto Luogotenenziale delle Province Siciliane del 12 dicembre 1860. Recava i segni descritti nel racconto. “Nonno la diede a mio padre e questi a me” “Molto interessante, chi sa quante volte avete raccontato questa storia” “Molte volte … specialmente a me stesso: io vivo solo da sempre, solo come questi scogli di granito. La mia vita è svanita nel tempo in cui la schiuma dell’onda ritorna acqua. Prendete voi questa medaglia, ve la regalo a patto che prima o poi scriviate questa storia”. Non sapevo cosa rispondere ma accettai il prezioso cimelio che ora vedete nella foto. Sciolgo dunque oggi questa vecchia promessa, sperando di non aver dimenticato nulla del racconto di Vannantò. Seppi in seguito che Canepa era passato a miglior vita nel 1987. Trapassò alla dimensione ulteriore durante l’oblio del sonno e quella piccola morte divenne definitiva per la sua forma terrena. La sua anima credo sia rimasta a Caprera insieme a quella del Generale.

3 commenti:

Unknown ha detto...

Gentile signora, l'articolo che Lei ha pubblicato è coperto da diritti di autore,
La prego di rimuoverlo subito dal suo blogg
Giuseppe Di Bella
Autore dell'articolo che Lei ha importato da siciliainformazioni

Unknown ha detto...

Come ho già scritto, questo articolo è coperto da diritto d'autore e nella pagina di pubblicazione su siciliainformazioni.com, dalla quale Lei ha copiato abusivamente l'articolo, è chiaramente scritto che la riproduzione è riservata.
Le ho già chiesto gentilmente di rimuovere l'articolo e visto che non è stato rimosso, sono costretto ad avvisarla che se entro 24 ore non provvederà a rimuoverlo, interesserò l'autorità giudiziaria competente e procederò per i danni subiti dall'illegittima pubblicazione.
Contemporaneamente ho avvisato la testata della violazione e dei danni da essa provocati a SICINFORM SRL.
Giuseppe Di Bella
autore del pezzo e proprietario dei diritti

Unknown ha detto...

Vi siete appropriati di un articolo senza autorizzazione e senza citare l'autore e la testata dal quale è stato illegalmente prelevato. Vi diffido dal
mantenerlo e vi preannuncio di volere affidare ad un legale una azione di risarcimento danni.
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