sabato 8 maggio 2010

BACHECA EVENTI - PITTURA

Giacomo Failla sguazza letteralmente nel colore, in un gioioso movimento verticale e orizzontale, trasversale, circolare, che gli consente di creare delle fitte tessiture tematiche, individuabili, di volta in volta, in una dilatazione del segno dominante, che diventa il diffusore di una tonalità vincente, che nella tempesta del movimentismo, del tutto contro tutto, si trasforma nel bandolo della metafora, di cui l’opera finisce con l’essere portatrice, nella sua essenzialità antropologica e culturale.

Si tratta di una bella affermazione di follia e di imprevedibilità, di un universo artistico in cui tutto sembra essere messo in questione ed in effetti lo è, come esito tempestoso e tellurico di un sommovimento che non si presta a nessuna tregua, perché esprime un bisogno profondo di specularità, per poter affermare i tormenti di una condizione esistenziale precaria, effimera, sottesa da una spettacolarità che vuole tutto e non si accontenta più della sola maschera, vuole quello che c’è dentro, vuole la vita, che spesso è sofferenza, che spesso è alienazione.

Il combattimento, psicologico, emotivo, poetico, tecnico, contro una tela bianca, sintetizza il fascino e la perversione del vuoto, a cui l’artista vuole togliere l’imperativo enigmatico che si spinge oltre il labirinto dell’universo dei segni, che non conducono da nessuna parte, perché soddisfano se stessi, in quello che appare ( ed in effetti, è) un monologo aperto all’insonnia delle notti luminose e al sogno di infiniti giorni nebbiosi.

Si determina così, il diffondersi di un irrazionalismo, che è pura affermazione di sé, quasi retorica del tempo prima perduto e poi trovato, come se ci fosse un destino ad attenderlo, mentre non c’è altro che il suono della propria, stessa, voce, il volto del proprio, stesso, volto.

Ogni opera è intensamente lavorata, come se fosse rivolta ad una impossibile perfezione, che non appartiene al sublime, da qualsiasi punto lo si consideri, semplicemente perché i gesti e le parole, per quanto ricercati e elaborati, a volte, anzi, spesso, per questo motivo, sono infedeli, sufficienti a dire quello che ribolle dentro, ogni “imprevedibile” sogno di invenzione, che è fatto solo per lo sguardo, per un dialogo senza parole, che è matericamente diverso dai codici fatti per essere, decodificati, letti, compresi.

Qui si percepisce, in modo avvolgente, imperioso, una energica di espressione di elaborazione poetica, avanzata, indicibile, in condizione di frontiera, diretta ben oltre ogni idea di confine, dell’opera e delle opere e offrendo ben altro dei luoghi comuni della riconoscibilità, in qualunque psicologia della forma, che qui è in un partibus infedelium, rispetto alle tante culture dell’immagine, immerse nel cuore della genialità moderna, ma aggredite da una mondanità, tecnologica, ormai storica, sempre più fondata sull’astrazione, come processo che va dal particolare al generale e a punto di non ritorno dell’informale, che accosta le trame della geometria a quelle del caos, sintetizzando, sempre nuovi enigmi e sempre nuove attrazioni visive e tattili.

In questa regione, che è dell’anima, più che della geografia concreta, dei meridiani e dei paralleli, non mancano le prove di una presenza, che fa della differenza il luogo della nuova identità artistica, impiantati negli anni ’40 del novecento, che risponda ai nomi di Scialoja, di Dorazio, di Scordia, di Accardi, di Turcato, di Vedova, dalle cui mani sono usciti capolavori dell’essere altro, che è dentro il nostro modo di essere iconici e anti iconici, nello stesso tempo, capaci di fare canto e contro canto e far tutto l’opposto di quanto si poteva prevedere, che ci viene dalla storia, che è fatto di pietre, delle pietre metaforiche oltre che reali, che intralciano il nostro cammino, lo rallentano, ma lo rendono, comunque possibile, come necessari mattoni di un linguaggio a venire.

Si avverte una estensione tra visibile e invisibile che si scatena nella natura e nella cultura, che diventano, esse stesse, i punti di riferimento, per la vista e per ogni possibile esperimento giocato col gesto provocatorio che va oltre ogni limite formale, oltre ogni idea stessa del limite, nel territorio delle opere aperte, che scongiurano il dramma della cecità nei confronti della fecondità del caos.

Così, l’artista ascolta il silenzio che gli gira intorno, traendone elementi per il suo mondo silente, a sua volta, come un piccolo frammento di universo, generato dalla forza espressiva dei colori, nella simulazione di un movimento che è virtuale estrinsecazione di una immobilità che si proietta alla vista, come un segno tempestoso in cui si è spettatori di se stessi, perché ognuno è solo nel vedere. Anche perché, esso non appartiene solo ad una sfera ottica, tecnicamente misurabile, ma si confronta con una misura culturale che è irripetibile, perché mostra lo svelamento dell’eros, segreto che urge dentro, con tanta più forza e con tanta più dolcezza, quanto più esprime un’essenzialità, che modifica i profili di ogni accadimento, nel senso di una dualità tra l’essere che percepisce e l’oggetto della percezione, che tende al’unità.

In fondo, in fondo, c’è tanta natura in queste suggestive evocazioni, c’è il vento, il gelo, la luce, il cielo, l’Etna addirittura, la luce d’Africa, come se fosse una grande replica teatrale, che appende il suo vivente interesse simbolico verso nelle vicende del grande schermo piatto della stessa pittura in sideralità di uno spazio, che non è mai piatto e uniforme, ma vissuto come il campo di una battaglia, in cui nessuno può perdere, perché nessuno deve vincere, rimanendo in un campo aperto, con opere sostanzialmente aperte.

Naturalmente sbaglia chi pensa che questo gioco formale si possa ripetere come una litania, perché ha una sua finitezza la cui delimitazione è possibile, come in questi casi proprio a portare delle varianti possibili e immaginabili. Ad un certo punto bisogna tirare le somme, di una stagione straordinaria, di questo artista, la cui ode alla vita, non è mai ignara del destino di morte, che l’arte ignora in vista di un’estasi.

Francesco Gallo

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